(a cura dell’Archivio Storico degli Anarchici Siciliani)
ANDREA SALSEDO
La vita di Andrea Salsedo è raccontata alla fine del nostro documento costitutivo.
ALBERTO GIANNITRAPANI
Nasce a Trapani il 17 agosto 1843 da Sebastiano e Maria Pipitone. Di principi mazziniani e garibaldini, evolve verso l’Internazionale alla fine del 1873, allorché si costituisce a Trapani, sotto l’impulso di Vincenzo Curatolo e di Saverio Guardino, proveniente da Sciacca, una prima sezione dell’Internazionale bakuniniana. La sezione prende consistenza e sviluppo due anni dopo, con la pubblicazione dello Scarafaggio, periodico internazionalista diretto dal giovane studente Francesco Sceusa. Pur professando princìpi anarchici (l’astensionismo innanzitutto) e dichiarando a più riprese la propria adesione alla Federazione Italiana dell’Internazionale, la sezione di Trapani, poi circolo di propaganda socialista, intrattiene rapporti frequenti e solidali col circolo palermitano dissidente di Ingegnieros e Malon.
Il 18 settembre 1876, accogliendo l’appello che in tal senso gli perviene dalla Federazione Italiana e dal Bureau Federale di Neuchâtel, il circolo si trasforma in “sezione mista”, forte di 400 associati, primo nucleo di una rinnovata organizzazione per arti e mestieri. Giannitrapani viene segnalato come uno dei soci più in vista della nuova sezione, che inizia un’ampia opera di proselitismo nei paesi della provincia (vi sorgono cinque nuovi nuclei internazionalisti in pochi mesi). Nel dicembre 1876, mentre l’Internazionale trapanese sta organizzando un primo congresso regionale in unione col circolo di Palermo (dopo aver inviato, unica in Sicilia, la propria adesione al congresso nazionale di Firenze-Tosi del 21 e 22 ottobre), si abbatte feroce su di essa la repressione del prefetto Bardari. Giannitrapani viene ammonito l’8 gennaio 1877 insieme a Francesco Sceusa, a Domenico (Mimì) Lo Monaco e al tipografo Pietro Colajanni, perché «proclive ad eccitare l’odio fra le classi sociali ed a turbare l’ordine pubblico», e riammonito il 16 febbraio «siccome ozioso e vagabondo e diffamato». In realtà, dopo che la caffetteria della madre in cui era impiegato aveva chiuso i battenti, lui per vivere si arrangiava col contrabbando. Mentre Sceusa raggiunge Napoli e s’imbarca alla volta dell’Australia, Lo Monaco, Colajanni e Giannitrapani vanno incontro a un destino più atroce: il primo finisce in manicomio; il secondo viene inviato a domicilio coatto nell’isola di Pantelleria, dove muore; e Giannitrapani – scontati tre mesi di carcere per contravvenzione all’ammonizione – trascorre due anni di domicilio coatto nell’isola di Lipari. La sezione internazionalista, sciolta il 20 aprile 1877, rimane attiva – sebbene in clandestinità – almeno fino all’autunno 1878. I suoi maggiori esponenti (Curatolo, Lo Nero, Testagrossa, Serafini, e lo stesso Sceusa in esilio) finiscono o con l’abbracciare il socialismo evoluzionista o col ritirarsi a vita privata.
Praticamente isolato nella prima metà degli anni ’80, Giannitrapani partecipa alla rifondazione dell’anarchismo nel trapanese a partire dal 1887, legandosi dapprima con i giovani anarchici marsalesi del gruppo “La Fiaccola”, e poi dando vita, in contemporanea, ai circoli “Gli schiavi” di Marsala e “I ribelli” di Trapani, inaugurati il 3 novembre 1889. Le autorità tentano di ostacolarne l’attività spesso in modo pretestuoso, ad esempio condannandolo il 31 ottobre 1889 – tre giorni prima dell’inaugurazione dei due circoli anarchici – a un anno di carcere per un furto mai commesso (sarà assolto in appello); infliggendogli altri due mesi di reclusione, insieme al giovane Cassisa, per avere organizzato lo sciopero del 1° maggio 1890, riuscito nonostante il loro arresto preventivo (che diverrà una costante negli anni seguenti); ammonendolo nuovamente come ozioso e vagabondo il 12 agosto 1891. Persecuzioni tanto sfrontate non fanno che accrescere la sua fama negli ambienti popolari. Giannitrapani collabora incessantemente alla stampa del movimento, sia con articoli e corrispondenze, sia facendosi ricettore e diffusore di opuscoli, manifesti ed altre stampe sovversive. La sua casa è il ritrovo preferito degli anarchici di Trapani e di Marsala, che vi possono trovare ospitalità in qualsiasi momento e leggervi corrispondenze, giornali e stampe provenienti da gruppi anarchici di mezzo mondo. Vive di commercio ambulante: farina, crusca, carrube, tessuti. Più volte è sul punto di raggiungere una certa stabilità economica, ma poi è sempre costretto a ricominciare daccapo per via delle persecuzioni. Lo aiutano attivamente nel commercio come nella militanza politica la moglie Francesca Tedesco, anch’essa anarchica (morta nel maggio 1896) e, dal primo decennio del ‘900, i due figli Serpentina Paola (nata a Trapani l’8 agosto 1890 e morta a Casteldaccia il 4 febbraio 1967, compagna dell’altro anarchico Antonino Casubolo) e Spartaco Sebastiano (nato a Trapani l’11 aprile 1893 e fucilato gridando “Viva l’anarchia!” il 27 giugno 1917, a Porpetto, in zona di guerra).
Il 22 gennaio 1894 Alberto Giannitrapani finisce nuovamente a domicilio coatto per un anno, prima a Favignana e poi a Pantelleria, per essergli stati rinvenuti dei volantini in un pacco di datteri. Al rientro a Trapani, insieme a Nicolò Converti e a Giuseppe Patti, «che fornì la quasi totalità dei mezzi», organizza la fuga da Favignana dei coatti Palla, Bergamasco, Pezzi, Fibbi, Salvi e Melinelli, avvenuta il 28 maggio 1896.
Giannitrapani diventa in Sicilia il principale punto di riferimento della campagna per la liberazione dei prigionieri anarchici. Incriminato per la propaganda svolta in occasione dei moti del caro-pane, il 12 maggio 1898 si rende irreperibile ma, un mese dopo, tornato a Trapani, viene arrestato e incarcerato fino al 30 agosto successivo.
“Patriarca” dell’anarchismo trapanese, a cavallo tra i due secoli attrae verso l’idea anarchica numerosi giovani. Subisce il suo ultimo arresto, il 2 maggio 1906, per distribuzione di manifestini sovversivi ai soldati: sarà scarcerato il 22 maggio. Con l’arrivo a Marsala di Paolo Schicchi e la nascita del Proletario Anarchico, nel 1910, Giannitrapani contribuisce a ricompattare il movimento anarchico nel trapanese, puntando da un lato sulla polemica anticlericale (manifestazioni pro Ferrer) , dall’altro su quella antinasiana e antisaporitiana (i Saporito erano i maggiori proprietari mafiosi della provincia). Il fallimento di questo progetto su scala regionale e gli acciacchi della vecchiaia lo inducono a un periodo di riposo, lontano dalle persecuzioni della polizia e dalle polemiche coi compagni, che trascorre a Goletta (Tunisi), in casa della figlia, dal 23 dicembre 1913 al 18 luglio 1914. Rientrerà a Trapani, dove muore il 20 dicembre 1918, “nella più squallida miseria”, piegato dal dolore per la tragica fine del figlio Spartaco.
ANTONINO AZZARETTI
Nasce a Palermo l’8 aprile 1853 da Matteo e Cristina Santacroce. In giovane età si trasferisce a Trapani dove trova lavoro come sarto (giungerà ad aprire un negozio di sartoria, piuttosto rinomato, che condurrà insieme alla moglie, Caterina Sucameli, anche lei anarchica, e ai quattro figli, due dei quali, Andrea e Antonio, attivi nel movimento siciliano ancora nel secondo dopoguerra). Seguace delle dottrine calviniste, forse in espiazione di un delitto di sangue costatogli due anni e tre mesi di carcere il 3 luglio 1871, le abbandona per l’ateismo e l’anarchismo sullo scorcio del 1887. Insieme a Gaetano Combatti, è implicato il 3 giugno 1888 nei disordini scoppiati a Marsala per protesta contro l’aumento dei dazi di consumo, ma viene presto scagionato. Collabora in questo periodo al numero unico Maggio 1860 – Maggio 1871 e con corrispondenze all’Operaio di Tunisi e all’Operaio di Reggio Calabria. Fondato nel dicembre 1890 Il Proletario, ne conduce l’amministrazione con metodi decisi, attirandosi pesanti critiche da parte dei compagni di Trapani che lo inducono, nella primavera del 1891, ad abbandonare il giornale. Ne riprende le pubblicazioni, dopo un periodo di sospensione, il 18 agosto 1891, accusato d’incoerenza dai compagni Marsala – Spedale e Zichitella – che pubblicano nel frattempo un nuovo periodico, Il Proletariato, influenzato dalle posizioni antiorganizzatrici professate da Paolo Schicchi a Ginevra. Azzaretti, che pure era stato definito da Schicchi «buon propagandista (ma) pusillanime all’eccesso», si rivela anch’egli un critico implacabile dell’organizzazione anarchica e dell’attendismo che a parer suo ne deriva. Affronta pertanto, sulle pagine del Proletario, una dura polemica con l’anarchico palermitano Emmanuele Gulì che sarà, con i ripetuti sequestri, tra le cause principali della chiusura del giornale (avvenuta il 10 febbraio 1892). Un’opera di mediazione, effettuata soprattutto da Gian Salvatore Cassisa, porta alla nascita a Marsala di un Circolo di Studi Sociali (come d’altronde avviene nello stesso periodo in altre località dell’Isola), con lo scopo di avvicinare all’anarchismo 1’elemento operaio e stemperare nell’attivismo le passate polemiche. Successivamente, fin dal 9 luglio 1892, vedrà la luce un settimanale regionale dichiaratamente unitario, L’Uguaglianza Sociale. Il giornale raggiunge un’ottima tiratura per 1’epoca (oltre 2.000 copie diffuse in tutta l’Isola) e un’ampia udienza nazionale. Azzaretti ne è nominato prima amministratore e, dal 13 agosto 1893, anche direttore, subentrando a Filippo Arini (condannato per reato di stampa) e al rinunciatario Giuseppe Monaco. Se nel suo primo periodo, che va dal 9 luglio 1892 al 22 gennaio 1893, L’Uguaglianza Sociale si occupa principalmente dell’atteggiamento degli anarchici siciliani nei confronti dei socialisti (che fino alla “scissione” di Genova dell’agosto 1892 costituisce un motivo di divisione tra le varie tendenze, e successivamente ne diventa invece il principale collante), nel secondo periodo – in cui prevale nettamente la componente antiorganizzatrice – il dibattito si concentra sulla partecipazione degli anarchici ai Fasci dei lavoratori. Differentemente dal movimento anarchico nazionale, che alla vigilia dello stato d’assedio del gennaio 1894 si presentava ancora diviso sulla questione, il movimento siciliano matura sulle pagine del giornale marsalese una posizione comune sia ai cosiddetti “fasciomani” (per lo più organizzatori) che agli “antifasciomani” (antiorganizzatori), esposta da Giovanni Bonagiuso nell’apposita rubrica intitolata Questioni di Tattica. Gli anarchici ed i Fasci dei Lavoratori in Sicilia, e consistente nella graduale adesione al collettivismo dei Fasci, considerati come “l’abbiccì dell’anarchismo”, in attesa che maturino i tempi per una società comunista anarchica. Confortati da analoghe dichiarazioni di Nicolò Converti (che ristampa in opuscolo i suoi articoli sull’argomento) e Pietro Raveggi (che firma con lo pseudonimo di Tropie), i redattori del giornale prendono contatto con i Fasci per radicalizzarli, contrastarne la “colonizzazione” da parte socialista, e trasformarli in cellule della società futura (Bonagiuso ne promuove persino la costituzione a Castelvetrano). Azzaretti pubblica sul giornale (o fa circolare in tutta 1’Isola e fuori) alcuni manifestini firmati Gli anarchici di Sicilia, d’intonazione pre-insurrezionale, che chiamano le popolazioni alla «preparazione silenziosa» nell’attesa del «momento opportuno», e alla concordia contro «un solo nemico». I tumulti popolari della fine di dicembre, scoppiati prima del previsto, vanificano la condotta guardinga degli anarchici e servono al governo di pretesto anche per scompaginarne le fila. La rigida sorveglianza della polizia nei confronti di Azzaretti, la detenzione di Zichitella (condannato per omicidio) e la defezione di Giuseppe Monaco, postosi al servizio del deputato crispino Abele Damiani, costringono l’Uguaglianza Sociale a interrompere le pubblicazioni alla vigilia di Natale del 1893. Rifugiatosi nelle campagne di Petrosino, vicino Marsala, dove tenta di organizzare i contadini, prima e dopo lo stato d’assedio, Azzaretti viene arrestato insieme ai compagni Vincenzo Alesi e Salvatore Marino il 16 marzo 1894. Assolto quindici giorni dopo dall’accusa di detenzione di manifesti sovversivi, si mantiene negli anni seguenti molto prudente (il 14 gennaio 1896 rilascia dichiarazione scritta all’ufficio postale di Marsala di rifiuto preventivo di tutti gli stampati che gli fossero pervenuti) ma anche alieno da compromissioni coi radicali socialisti che appoggiano la candidatura-protesta di Vincenzo Pipitone, diversamente da altri anarchici della provincia. Torna improvvisamente a farsi notare quando ospita a Marsala Pietro Gori e lo coadiuva nelle affollate conferenze che questi tiene in città l’11, il 14, il 24, il 27, il 28 febbraio e il 1° marzo 1903, e che – come in altre località dell’Isola – provocano discordie intestine fra i socialisti locali rivitalizzando i gruppi anarchici.
Il 1° maggio 1903 promuove la pubblicazione del numero unico La Pasqua dei lavoratori. Dal 3 dicembre dello stesso anno, in unione ai compagni di Mazara del Vallo (dove il movimento è in rapida espansione), dà vita a un nuovo giornale quindicinale, La Falange, diretto da Vito Pipitone e amministrato da Rocco Monaco. Il 12 giugno 1904 costituisce a Marsala un circolo di studi libertari di cui entrano a far parte lo stesso Monaco, Simone Pipitone, Francesco Bilardello e numerosi altri. La sua collaborazione al giornale socialista anarchico di Carrara, Combattiamo, inizia una stagione di rapporti intensi degli anarchici siciliani con quelli toscani, in particolare di Pisa e di Carrara, culminata nei ripetuti soggiorni nelle due città e in giri di propaganda in Toscana di Vincenzo Polizzi, Giuseppe Gugino e Paolo Schicchi dal 1907 al 1914. Azzaretti accoglie Schicchi al suo ritorno in Sicilia nell’agosto 1910 e lo aiuta, in qualità di amministratore, nella gestione di un nuovo periodico, Il Proletario Anarchico, che vede la luce il 23 ottobre successivo. Nel marzo 1911 firma l’appello per un «Convegno anarchico siciliano in Marsala» e nell’aprile ospita Luigi Molinari, che terrà, il 7 maggio, una memorabile commemorazione di Pietro Gori al Teatro Comunale di Trapani. Il convegno regionale non ha più luogo per dissensi interni al movimento isolano e per la chiusura del giornale, il 14 maggio 1911, provocata da un ingente deficit. Azzaretti, che mantiene inalterate le sue convinzioni anarchiche, rallenta progressivamente la propria attività politica. Nel primo dopoguerra non farà mancare il suo contributo finanziario alla stampa schicchiana. Muore a Marsala il 22 luglio 1922.
GIAN SALVATORE CASSISA
Nasce a Trapani l’8 maggio 1862 da Cristoforo e Giuseppa Allotta; soprannominato “Mangiasale” o “Mangiafave”, impiegato municipale. Fin da giovanetto coltiva ambizioni letterarie e professa principi radicali e repubblicani. Diplomatosi all’Istituto Tecnico di Trapani e abbandonati gli studi, dopo aver frequentato per un anno la facoltà d’ingegneria all’Università di Palermo, esercita il mestiere di barbiere a Borgo Annunziata. Legatosi in particolar modo ad Alberto Giannitrapani, e poi ai giovani anarchici Mazzarese e Ilari di Trapani, Azzaretti, Giuseppe Monacò e Spedale di Marsala, diviene uno dei più attivi membri del gruppo anarchico che si costituisce nei primi mesi del 1888 per opera specialmente di Gaetano Combatti-Lentini. Interrotta la collaborazione con La Nuova Età, giornale mazziniano moderato di Marsala, invia corrispondenze all’Operaio di Tunisi e al Riscatto di Messina, con lo pseudonimo di Asissac. Redattore de La Riscossa, settimanale apparso a Trapani il 15 agosto 1889, ne assume la responsabilità dopo l’arresto del direttore Antonio Costantino, mutandone il nome in La Nuova Riscossa. Due in particolare le campagne che conduce su questo giornale: quella per “l’anarchia senza aggettivi”, direttamente mutuata dal dibattito in corso in Spagna (gli anarchici trapanesi intrattengono intensi rapporti con quelli di Barcellona), volto a depurare l’anarchismo dalle varie aggettivazioni (socialista, comunista, collettivista, ecc.) che contribuiscono a ingenerare confusione al suo interno; e l’agitazione pro-Sceusa, che sfocia nella candidatura-protesta dell’ex internazionalista esule in Australia. Quest’ultima attira numerose simpatie intorno al piccolo gruppo trapanese, che da lì prende uno sviluppo impetuoso, ma allo stesso tempo dure critiche da parte del movimento nazionale. Cassisa si giustifica pubblicando prima sul giornale, poi in opuscolo, lo scritto – importante anche per le notizie storiche in esso contenute – su Francesco Sceusa e l’Internazionale in Trapani. Intanto, La Nuova Riscossa cessa le pubblicazioni l’11 novembre 1890 fondendosi con Il Proletario di Marsala. Cassisa, che ha dovuto affrontare diversi processi, difeso dall’avvocato Vito Grignani, “mago della parola” e “compagno di strada” degli anarchici trapanesi per oltre un ventennio, s’impegna nella compilazione e diffusione di numerosi lavori letterari e teatrali d’indole sociale: Annita, I ladri, Congiura naturale, ecc. Nel marzo 1891 viene accusato di far propaganda anarchica nell’esercito e tra i coatti di Favignana, Pantelleria e Lipari, spedendovi il programma scritto da Francesco Saverio Merlino per gli anarchici siciliani alla vigilia del congresso di Capolago. Nella primavera del 1892 promuove la nascita a Marsala dell’Uguaglianza Sociale (il primo numero compare il 9 luglio dello stesso anno), avente tra i suoi scopi quello di unificare in Sicilia le varie tendenze del movimento secondo la formula che «ogni mezzo è buono purché miri alla conquista del fine». Ma ben presto le differenze emerse sul modo d’intendere il rapporto coi socialisti e coi nascenti Fasci dei lavoratori, induce Cassisa a cessare la sua collaborazione al giornale. Alla vigilia dello stato d’assedio del gennaio 1894 è intento a crearsi una posizione economica, come impiegato municipale e insegnante privato. Dopo anni di silenzio, interrotto talvolta da conferenze educative e commemorative pubblicate anche in opuscolo, ricompare sulla ribalta politica trapanese quale leader del “nasismo” e direttore de Il Giornale di Trapani, organo di quel movimento. Il “nasismo” ha origine dalla vicenda giudiziaria di Nunzio Nasi, ministro trapanese alla Pubblica Istruzione, costretto a dimettersi dal governo nel 1904 per una vicenda di corruzione e a riparare in Francia per evitare una pesante condanna. Prima a Trapani e poi in tutta la Sicilia la vicenda Nasi viene interpretata come un attacco all’onorabilità e agli interessi delle popolazioni isolane da parte del governo Giolitti e dei ricchi proprietari del Nord Italia. Alcuni anarchici, specie del trapanese, tra cui Cassisa, aderiscono al “nasismo” sotto la spinta popolare e partecipano alle manifestazioni, anche cruente, che hanno luogo in varie città dell’Isola. Anni dopo, Cassisa spiegherà di aver preso a pretesto quel movimento per educare «il popolo trapanese ai sensi di quella Giustizia universale», che forma il substrato dell’idea anarchica. Per esso egli compone l’Inno Popolare Nasi, il cui ritornello recita appunto: “In alto la bandiera Giustizia e Verità …/ Se infuria la bufera vogliamo Libertà”. La rivendicazione sicilianista, che col “nasismo” fa la sua ricomparsa nell’orizzonte anarchico siciliano, finisce con l’influenzare anche Il Proletario Anarchico, il giornale fondato nel 1911 da Paolo Schicchi a Marsala e del quale Cassisa è tra i principali redattori. Con i suoi drammi sociali, Il paradiso dei poverelli, La trovatura, Il cieco, Carmela, La vergine, Primo Maggio, Bisogna restituire, Ideale, ecc. (alcuni dei quali oggi introvabili), rappresentati al Teatro Comunale di Trapani e in quelli della provincia principalmente dalla Filodrammatica Sociale, aggregata al Circolo di Studii Sociali di Marsala, Cassisa raggiunge anche una certa notorietà nel movimento nazionale. La sua drammaturgia, di matrice verista anche se non priva di pathos e di introspezione, rimanda per certi versi al teatro goriano (si veda la sua vibrante epigrafe in occasione della morte di Pietro Gori, da lui conosciuto nei suoi viaggi in Sicilia del 1903 e del 1905) e per altri versi alle concezioni educative di Francisco Ferrer (a cui dedica alcuni articoli publicati nel numero unico Tredici Ottobre ed un discorso commemorativo tenuto a Marsala il 20 ottobre 1910). Entrato in crisi il progetto di ricompattamento dell’anarchismo siciliano, imperniato su Il Proletario Anarchico, e dopo un periodo di collaborazione a L’Avvenire Anarchico di Pisa (che gli costa una polemica e una querela da parte di Sceusa), Cassisa torna per qualche tempo a militare nel movimento nasiano. Nell’immediato primo dopoguerra lo si ritrova saltuario collaboratore de Il Vespro Anarchico di Schicchi, con articoli di cultura varia e anticlericali. Una paralisi ne riduce drasticamente ogni attività, tanto da essere radiato, nel 1927, dallo schedario dei sovversivi. Muore a Trapani il 15 marzo 1940.
PIETRO URSO
Nasce a Trapani il 28 aprile 1875 da Antonio e Antonina Fiorino. Muratore autodidatta, infatuato delle idee anarchiche, opera attivamente nel Fascio dei lavoratori di Trapani insieme ad altri giovani, tra i quali Giuseppe Costadura e Francesco Sammartano, entrati in contatto con l’ex internazionalista Alberto Giannitrapani. Dopo lo stato d’assedio del 1894, è tra quegli anarchici che si alleano coi radicali e i socialisti trapanesi in funzione anticrispina. Nel maggio 1898, insieme a Nicolò Sicomo e ad altri, tra i quali lo stesso Giannitrapani, inizia una campagna di agitazioni contro il caro-pane che gli vale alcuni processi e relative condanne, in seguito amnistiate. Ripara in Tunisia, prima a Sfax e a Susa, poi a Tunisi. Rientrato a Trapani nell’agosto 1900, si vede affibbiare tre mesi di carcere per scontare una multa per contrabbando. Negli anni seguenti figura, con Sammartano e Giannitrapani, tra gli esponenti anarchici della Camera del lavoro di Trapani. Nel 1906 partecipa alla grandiosa manifestazione trapanese del 1° Maggio, alla testa di diecimila contadini provenienti dai paesi della provincia. Da Favignana, dove nel frattempo si è trasferito per condurvi un negozio di chincaglierie, collabora con corrispondenze a Il Proletario anarchico di Marsala e a L’Avvenire anarchico di Pisa (pseud. “Homo”). Comincia a soffrire di disturbi mentali che lo portano il 9 aprile 1925 all’internamento nell’ospedale psichiatrico di Palermo. Qui muore il 17 giugno 1933. Lascia inedito un Trattato di scienze sociali e politiche, meccanica, architettura ed igiene, scritto nel 1926, che contava di pubblicare «non appena mi si vorrà reintegrare nel mio diritto alla libertà».
FRANCESCO SAMMARTANO detto CICCIO
Francesco Sammartano (detto Ciccio), fabbro, nasce a Trapani il 19 marzo 1870 da Giuseppe e Giuseppa Genovese. Seguace di Giannitrapani, milita ben presto tra gli anarchici e nel Fascio dei lavoratori trapanesi. Nella primavera del 1897 accorre volontario in Grecia al seguito di Cipriani. Dotato di vasta e profonda cultura, acquisita in proprio, eccelle nella propaganda e nell’attività sindacale. Arrestato il 12 maggio 1898 per associazione sovversiva e assolto il 30 agosto successivo, lascia Trapani per stabilirsi prima a Campobello di Mazara, col fratello Giacomo, anch’egli fabbro di valore e anarchico, e poi dal 10 giugno 1899 a Castelvetrano, dove rimette in piedi il gruppo anarchico locale insieme all’altro fratello, Giovanni, ex dirigente socialista del Fascio trapanese passato all’anarchismo.
Nel 1903 torna a Trapani per sostenere lo sciopero dei bottai ed imprimere un indirizzo maggiormente rivoluzionario al movimento contadino e camerale del capoluogo, coadiuvato in ciò dai compagni Giannitrapani, Urso e Valenti (quest’ultimo terrà il comizio del 20 settembre 1904, sciolto dalla polizia, in occasione dello sciopero generale per l’eccidio di Castelluzzo).
Nuovamente a Castelvetrano dal 1910, la trasforma – con Navarra, Bonanno, D’Angelo, Masaracchia e parecchi altri – in una delle cittadelle dell’anarchismo siciliano, sostenendo lotte incessanti e coraggiose contro le locali cricche municipali, prodotto del sistema clientelare-mafioso imposto dal sindaco Infranca, dai boss Saporito e dal socialismo riformista, degenerato e camaleontico, dell’ex anarchico Bonagiuso. Il fascismo tenta più volte inutilmente di piegare Sammartano ammonendolo come anarchico pericoloso il 18 gennaio 1928, arrestandolo e condannandolo il 15 ottobre successivo a quattro mesi di reclusione per contravvenzione al monito. Dimesso dal carcere il 31 gennaio 1929, vi ritorna il 21 marzo per scontare altri 40 giorni per lesioni. Sottoposto a vigilanza speciale dal 7 maggio 1929 al 13 marzo 1931, più volte fermato per misure di pubblica sicurezza, riesce a costituire ugualmente nel circondario – con l’aiuto specialmente del barbiere Diecidue di Castelvetrano e di Accursio Miraglia di Sciacca, entrambi anarchici – una rete cospirativa collegata col Fronte Unico Antifascista Italiano. L’8 aprile 1941, Sammartano viene arrestato per aver pronunciato frasi offensive nei riguardi del principe Amedeo d’Aosta, di Mussolini e di Hitler, ed «aver commentato sfavorevolmente e in tono sarcastico la condotta delle nostre operazioni belliche in Africa Orientale». Verrà poi scarcerato il 22 maggio, e nuovamente ammonito il 30 ottobre 1942 perché fisicamente inidoneo a sopportare il regime del confino. Promuove tuttavia a Castelvetrano e nei paesi limitrofi un “comitato operaio indipendente” poi “comitato antifascista” (su posizioni classiste), che raccoglie armi e dà vita al primo nucleo di una formazione partigiana che non avrà il tempo di operare per l’arrivo degli Alleati. Trasformatosi in “Fronte unico proletario” – al quale partecipano anarchici, comunisti, socialisti e repubblicani – diffonderà il 16 settembre 1943 un lungo manifesto programmatico analogo, per il costante riferimento al fascismo risorgente, ai manifesti redatti da Paolo Schicchi a Palermo nello stesso periodo. E difatti Sammartano riabbraccia Schicchi alla clinica Noto 1’8 ottobre 1943 e riallaccia i rapporti con i compagni palermitani. I comitati unitari del trapanese e dell’agrigentino, sempre più fagocitati dal Partito Comunista, portano al progressivo indebolimento e all’emarginazione degli anarchici che solo nei primi mesi del 1945 riescono a costituire un gruppo specifico a Castelvetrano intitolandolo a Pietro Gori. A incrinare i rapporti con i comunisti contribuiscono anche i moti del “Non si parte”, scoppiati in tutta l’Isola nel dicembre 1944 alla notizia di un nuovo richiamo alle armi. Gli anarchici promuovono un “Comitato provinciale di resistenza” che affigge manifesti contro la guerra e organizza manifestazioni specialmente a Ribera il 12 e a Castelvetrano il 14 e il 22 dicembre. Ovunque la rivolta viene duramente repressa, con decine di morti e strascichi giudiziari per migliaia di ribelli di diversa appartenenza politica, nel silenzio complice dei partiti di sinistra. Sammartano, “padre spirituale” del nuovo gruppo di Castelvetrano, partecipa alla riorganizzazione del movimento anarchico prima nella provincia poi in tutta l’Isola, concretizzatasi nei convegni di Trapani del 14 marzo 1946 e di Palermo del 2 marzo 1947. Ancora nel maggio 1950 accompagna Pier Carlo Masini nel giro di propaganda che compie nella Sicilia occidentale. Muore a Castelvetrano il 20 agosto 1950.
ANTONINO CASUBOLO
Nasce a Favignana (TP) l’11 agosto 1878 da Leonardo e Maria Carriglio, marinaio. Sotto l’influsso dell’anarchico trapanese Alberto Giannitrapani, aderisce giovanissimo all’idea libertaria. A vent’anni o poco più emigra in cerca di lavoro negli Stati Uniti, stabilendosi inizialmente a Paterson per trasferirsi successivamente a New Orleans e quindi a Saint Louis. Nel 1903 Casubolo manifesta la sua appartenenza “alla setta anarchica” con una serie di corrispondenze, concernenti lo sciopero dei facchini del porto di New Orleans, che appaiono ne La Questione sociale di Paterson. Altre corrispondenze invia l’anno successivo da Saint Louis sia a La Questione sociale che a Cronaca Sovversiva edita a Barre nel Vermont. Nel Maggio del 1905, mentre si accinge a rientrare in Italia, una lettera anonima di un “suddito fedele” proveniente da Trapani informa che Casubolo «è stato designato dagli anarchici per uccidere Sua Maestà il Re Nostro». In conseguenza di ciò Casubolo viene arrestato al momento dell’approdo del piroscafo nel porto di Palermo (Giugno 1905), condotto nel carcere di Trapani e deferito all’Autorità giudiziaria per tentativo di regicidio. Ma nessuna prova emerge a suo carico e, a seguito della dichiarazione di non luogo a procedere per insufficienza di indizi, Casubolo nel mese di Agosto viene rimesso in libertà. I mesi seguenti lo vedono svolgere un’intensa attività di propaganda anarchica nel trapanese, testimoniata, tra l’altro, da un arresto, seguito da assoluzione «per oltraggio alle guardie di città» e da una successiva condanna a nove mesi di reclusione per «eccitamento all’odio di classe». Dimesso dal carcere di Palermo, Casubolo parte per Tunisi, dove lo attende il fratello Giacomo, socialista (di fede anarchica risultano invece il fratello maggiore Giuseppe, sovversivo schedato la cui attività si arresta però nel 1915, e un altro fratello di nome Michele). Si reca quindi nel 1908 nuovamente negli Stati Uniti, dove esercita per alcuni mesi il mestiere di marinaio. L’anno successivo è di ritorno a Trapani, dove alloggia in casa del Giannitrapani, la cui figlia Serpentina Paola sposerà di lì a poco. Dopo un ulteriore viaggio negli Usa e un soggiorno di alcuni mesi a Chicago, inizia nel 1911 la fase “tunisina” di Casubolo. Marinaio esperto e individuo certamente non privo di spirito imprenditoriale, si cimenta in attività di vario genere, compreso il commercio dei vini, tra la Sicilia e la Tunisia e tra l’Isola e la Libia. Sempre attentamente vigilato dalla polizia che lo segue in ogni spostamento, Casubolo appare ora estraneo alla politica militante, sembra mantenere “buona condotta”, tanto da indurre al sospetto che «abbia modificato le proprie idee politiche». Questa fase di “letargo” dura oltre un decennio. Bisogna attendere infatti la seconda metà degli anni Venti per ritrovare Casubolo nuovamente impegnato sul versante della lotta politica nella ribadita fedeltà alle proprie convinzioni libertarie e nel particolare contesto della battaglia politica condotta dagli antifascisti, e dagli anarchici in particolare, nell’ambito della colonia italiana di Tunisi. Ormai il marinaio Casubolo è diventato armatore: prima proprietario di una nave da trasporto, quindi azionista di maggioranza della Société de Navigation Tunisienne a Vapeur, le cui tre navi fanno rotta nel Mediterraneo con particolare frequenza sul tragitto Tunisi-Marsiglia e viceversa, tanto da indurre le Autorità ad avanzare il sospetto di un traffico di immigrazione clandestina dalla Colonia francese al territorio metropolitano. All’inizio degli anni ’30 l’impegno politico di Casubolo, che non ha accettato di prendere parte all’avventurosa quanto sfortunata spedizione in Sicilia tentata da Paolo Schicchi, tende ad andare oltre la cerchia degli anarchici presenti a Tunisi per allargarsi a un più ampio rapporto di collaborazione con le principali realtà del fuoruscitismo antifascista operanti nella capitale tunisina. Casubolo riveste infatti un ruolo di tutto rilievo nell’ambito della locale sezione della Lega italiana dei diritti dell’uomo, e collaborando al settimanale Il Domani con articoli di denuncia dell’opera di spionaggio e di provocazione sistematicamente esercitata dagli agenti del Consolato italiano in Tunisi. Al riparo dalle minacce repressive della Polizia fascista in forza dell’avvenuta naturalizzazione francese acquisita nel 1932, Casubolo intensifica la sua azione politica anche in ambito più specificamente libertario stringendo intensi rapporti di collaborazione con Luigi Damiani esule a Tunisi e finanziando, al momento dell’impresa etiopica e con l’intento di dotare l’antifascismo tunisino di un organo di denuncia della politica imperialista e sopraffattrice operata dal fascismo, una nuova serie de Il Domani diretta per l’appunto dal Damiani. Per questa sua «sistematica attività sovversiva» di «irrudicibile avversario del regime» impegnato in una «implacabile propaganda contro l’Italia, il Regime e il conflitto italo-etiopico», Casubolo si scontra ripetutamente a Tunisi con elementi filofascisti rimanendo anche ferito, per come documenta una sua lettera del Dicembre 1936 a Camillo Berneri in Spagna. E a sostegno della Spagna repubblicana Casubolo esercita un’intensa attività propagandistica, sia pure in un contesto in cui (per come documentato da una lunga lettera da lui inviata nell’estate del 1937 a un gruppo di militanti del Partito socialista massimalista di Parigi) all’interno dell’antifascismo tunisino, come altrove, emerge – dopo i tragici avvenimenti di Barcellona – la divaricazione crescente tra i fautori della politica di Fronte popolare egemonizzata dai comunisti e gli anarchici e i socialisti massimalisti assertori degli sviluppi sociali della rivoluzione spagnola e difensori dei libertari e dei militanti del Poum atrocemente calunniati dagli stalinisti e dai loro alleati. L’impegno politico di Casubolo continua al momento del suo ritorno in Sicilia dopo la caduta del fascismo. Egli risulta attivo nel processo ricostitutivo del movimento anarchico siciliano come pure nell’azione di propaganda sia scritta che orale; attività nello svolgimento delle quali Casubolo può avvalersi dell’assistenza e dell’aiuto costanti della moglie Paola. Muore a Casteldaccia (PA) il 9 febbraio 1963.
GIOVANNI MANNONE
Nasce a Marsala (TP) il 25 aprile 1891 da Giovanni e Marcucci Ernesta, studente.
Di carattere taciturno e amante della lettura, specialmente di opuscoli e giornali sovversivi, si avvicina giovanissimo al locale gruppo anarchico animato da Antonino Azzaretti. Prende parte alle manifestazioni anticlericali organizzate dagli anarchici nell’Ottobre 1909, in occasione della fucilazione di Ferrer, e alla fondazione, di poco successiva, dell’associazione del “Libero Pensiero”. A nome di quest’associazione, invita Paolo Schicchi, reduce da Pisa, a tenere a Marsala l’8 agosto 1910 una conferenza istruttiva sul tema “Scienza e religione”, che avrà un successo travolgente e porterà alla fondazione dapprima di un Circolo di Studii Sociali, con annessa biblioteca, e poi, il 23 ottobre 1910, del Proletario Anarchico, giornale settimanale che, sotto la direzione dello stesso Schicchi, svolgerà una preziosa opera di riorganizzazione del movimento anarchico isolano. Mannone fa precedere l’apparizione del giornale da un numero unico, Tredici Ottobre, commemorativo di Ferrer, il cui sequestro provoca la sua denuncia, per abuso di autorità, nei confronti del delegato di P.S.
Frequenta intanto con ottimo profitto l’Istituto Tecnico di Trapani, dimorando presso il vecchio anarchico Giannitrapani. Collaboratore assiduo del Proletario Anarchico (pseud. Manno e M. Gino), vi pubblica testi poetici e di critica ispirati al futurismo “azionista”, incoraggiato dallo stesso Schicchi. Ma è la sua attività militante a impensierire maggiormente la polizia, in rapporto anche alla sua giovane età. Compare infatti tra i firmatari dell’appello del Marzo 1911 per un convegno regionale anarchico da tenersi a Marsala per «riannodare le forze anarchiche siciliane e i metodi di propaganda». Il 24 Ottobre dello stesso anno è chiamato sotto le armi. Riesce inizialmente ad ottenere vari congedi provvisori finché il 19 Settembre 1912, dietro pressioni del prefetto di Trapani, viene assegnato al 73° RGT Fanteria e poi alla 2ª compagnia di sanità di stanza in Piemonte. Rientrato a Trapani nel dicembre 1913, Mannone riprende gli studi all’Istituto Tecnico e il suo posto nel movimento. Ciò ne provoca il richiamo, il 24 luglio 1914, presso la 12ª compagnia di sanità di Palermo. Il prefetto di questa città insiste, a sua volta, perché venga inviato al fronte. Muore il 10 novembre 1918 all’Ospedale Militare di Verona.
GAETANO MARINO
Nasce a Salemi (TP) il 1° gennaio 1892 da Nicolò e Rosa Sinacore, insegnante. Orfano del padre, cresce sotto la tutela legale dello zio sacerdote. Studente all’Università di Palermo, dove si laurea nel 1914, entra in contatto col circolo mazziniano. Animato da suggestioni interventiste rivoluzionarie, combatte durante la Prima Guerra Mondiale, raggiungendo il grado di tenente degli arditi. A Palermo, nell’immediato dopoguerra, si volge a organizzare gli ex combattenti rivoluzionari in una sezione dell’ANC (Associazione Nazionale Combattenti), tentativo presto frustrato dalla preponderante influenza dei liberali di Vittorio Emanuele Orlando. Nel 1919 pubblica brevi scritti in versi e in prosa e dirige, insieme a Pietro Mignosi, una rivista letteraria, “Audax”, alla quale fa seguire la mazziniana “Critica politica”. In quella movimentata estate, Marino, come presidente dell’Associazione Arditi d’Italia a Palermo, fondata con Vittorio Ambrosini e altri dissidenti fuoriusciti dalla moderata ANC, e poi come legionario fiumano, sostiene la necessità di una lotta di classe inconciliabile con la partecipazione elettorale. Ancora interno all’ambiente della sinistra interventista, Marino ne rappresenta l’espressione più estrema, che cerca un raccordo significativo con anarchici e socialisti, senza rinunciare a occasioni di azione unitaria con chi si muove verso la costituzione dei Fasci di combattimento o in direzione della Lega democratica di Salvemini. Le elezioni politiche del Novembre 1919 segnano un momento di chiarimento: socialriformisti, radicali ed ex sindacalisti rivoluzionari, in odio al Partito Socialista Italiano, scivolano su posizioni sempre più nazionaliste e d’ordine, mentre fra i repubblicani cresce l’aspirazione all’unità d’azione con le forze rivoluzionarie. Marino si trova così a operare per la concordia tra i sovversivi e per una rivoluzione che da Fiume possa estendersi all’intero paese. L’unità è favorita anche dal tentativo di recuperare gli ex combattenti condiviso dai principali esponenti dell’anarchismo isolano e dai socialisti guidati da Giovanni Orcel.
Dalla primavera del 1920, Marino rinunzia all’insegnamento governativo e si trasferisce a Piana degli Albanesi dove lavora come operaio, tiene comizi, e fonda una scuola popolare nei locali concessi dall’Amministrazione comunale socialista. Il 20 agosto dello stesso anno viene accusato dell’omicidio del nazionalista Giacomo Schirò, che aveva a sua volta colpito a morte il socialista Gioacchino Genovese. Marino, arrestato e inviato alle carceri dell’Ucciardone, ne esce solo 30 mesi dopo, grazie a una sentenza di assoluzione. La detenzione contribuisce a determinare il suo distacco dalla fede cristiana, ultimo aggancio con la dottrina di Mazzini, e l’avvicinamento al movimento anarchico, mediato da Gabriele Pappalardo, suo antico compagno mazziniano, ora attivo nel gruppo anarchico di Palermo, che sul “Vespro Anarchico” di Paolo Schicchi ha condotto una campagna per la sua liberazione. Stabilitosi a Salemi nel febbraio del 1923, Marino riprende l’attività di insegnante privato e collabora con il gruppo antiorganizzatore schicchiano, senza peraltro condividerne in pieno la linea (fronte anarchico e fronte unico esclusivamente dal basso) nella lotta contro il regime. La rottura arriva presto e Marino si avvicina alle posizioni degli organizzatori anarchici, in primis Errico Malatesta.
Dal 1924 al 1926 tesse una rete di relazioni tra gli anarchici rimasti in Sicilia, come Umberto Consiglio, la redazione romana di “Umanità Nova” – direttore Malatesta – e i compagni salemitani emigrati negli Stati Uniti, conservando buoni rapporti con il più vasto ambiente dell’opposizione antifascista, dal neonato partito comunista siciliano ai liberali di Piero Gobetti, disponibili a cospirare fattivamente per l’insurrezione armata. Non privo di esperienza militare, organizza anche a Salemi, insieme a Sebastiano Gandolfo, un gruppo armato di resistenza che finanzia con i suoi guadagni. Cura nel frattempo la diffusione della stampa anarchica nel trapanese e tenta invano di pubblicare un suo opuscolo, dal titolo “Il Lavoro”.
Nel Maggio del 1925 fa ritorno a Palermo, nel clima denso di attese per l’anniversario dell’uccisione di Matteotti, che tenta di commemorare con un manifesto contro il regime. Arrestato insieme agli anarchici Edgardo Natoli e Salvatore Taormina, deve rinunciare alla pubblicazione de “La Nuova Coscienza”, “quindicinale di critica religiosa e di educazione sociale”. Il giornale, che già dal titolo rivela l’indirizzo educazionista assunto in questo frangente da Marino, si proponeva di evidenziare “l’insufficienza del bolscevismo”, di contribuire all’affermazione di una coscienza moderna liberata dalle “scorie religiose” e ancorata al naturalismo come filosofia capace di superare, al contempo, i limiti del materialismo marxista e dell’idealismo mazziniano. Riparato a Salemi, continua a sviluppare questo programma con numerosi articoli sulla stampa libertaria in Italia (“Pensiero e Volontà” e “Libero Accordo”), anche in contraddittorio con Malatesta, e all’estero (“L’Adunata dei Refrattari” di New York, “Culmine” di Buenos Aires e “Il Risveglio Anarchico” di Ginevra). Nella sua attività di pubblicista si segnala specialmente la polemica con Gigi Damiani, redattore del giornale anarchico romano “Fede!”, che ha sostituito “Umanità Nova”, sul rapporto tra comunismo e individualismo, e un’innovativa interpretazione della poetica.
Nel febbraio del 1926 Marino si sottrae alla vigilanza della polizia rifugiandosi, prima nelle campagne tra Salemi e Calatafimi, ospite del maestro socialista Vito Vasile, e poi nei dintorni di Palermo, dove lavora come operaio presso una cava. Fermato dai carabinieri nell’ottobre del 1926, mentre si trova a Palermo alla ricerca di una tipografia dove stampare opuscoli contro il regime, sfugge alla cattura fornendo il falso nome di Francesco Paolo Cacioppo ma, individuato, viene infine arrestato il 7 gennaio 1927. Pochi giorni dopo, su insistita richiesta del prefetto, è condannato a cinque anni di confino di polizia, che dal 1° aprile sconta nella colonia di Lipari, tra maltrattamenti, ribellioni e carcere duro che non riescono a ridurlo al silenzio.
Il 21 dicembre 1930 viene colto da alienazione mentale, secondo la versione prefettizia, e ricoverato nell’ospedale di Messina, vittima dell’internamento psichiatrico a cui il fascismo sottopone alcuni tra i più irriducibili avversari del regime. Sarà successivamente trasferito negli ospedali psichiatrici di Trapani e Palermo, dove muore, probabilmente per denutrizione, il 12 marzo 1943, lasciando inediti diversi scritti e un suo testamento politico.
[Fonte: Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, BFS, Pisa, 2003, pp. 96-97]
ANTONINO CATALANO detto NINO
Nasce a Mazara del Vallo (TP) il 18 marzo 1907 da Antonino e Carmela Giaramita. Contadino autodidatta, per qualche tempo impiegato del dazio, incarico affidatogli dal Fascio locale perché ha un braccio paralizzato fin dall’infanzia e la madre a carico, aderisce nel 1937 al Fronte Unico Antifascista Italiano (FUAI) che, costituitosi in Sicilia clandestinamente fin dal 1933, falcidiato dagli arresti ma rimasto operativo in diverse località, conosce una improvvisa vitalità a Mazara allo scoppio della guerra civile spagnola. Nel FUAI, promosso da comunisti eterodossi, confluiscono anche uomini e gruppi della sinistra non marxista, dando vita a quell’esperienza “frontista” che, proseguita specialmente a Trapani, a Catania e nell’agrigentino nel secondo dopoguerra, porterà all’assorbimento nel PCI di gran parte degli anarchici che vi partecipano. Il 1° maggio 1937, in collaborazione col cugino Francesco Russo, contadino, e col comunista Vincenzo Marzo, falegname, Nino Catalano organizza una manifestazione antifascista consistente nello stampigliare scritte sovversive sui muri della città e nell’issare una bandiera rossa sul pennone del castello normanno. Svolta la prima parte del programma, i promotori vengono arrestati dalla polizia fascista che, nella perquisizione effettuata in casa di Catalano, rinviene la bandiera rossa e un opuscolo anarchico. Il 10 giugno 1937 è assegnato per cinque anni al confino prima di Tremiti e poi di Ventotene (dove conosce Paolo Schicchi e Alfonso Failla). Insieme a lui, sono confinati per lo stesso motivo Matteo Asaro, Antonino Di Gaetano, Vincenzo Giametta, Vincenzo Marzo, Nicola Modesto e Francesco Russo. Il 30 aprile 1942, finito il periodo di confino, viene trattenuto nella colonia quale internato. Sarà libero solo alla fine di luglio del 1943, in seguito alla caduta del fascismo.
Il 5 settembre 1943 partecipa, in rappresentanza degli anarchici siciliani, alla riunione nazionale che si svolge a Firenze allo scopo di riprendere le pubblicazioni di “Umanità Nova” e costituire la “Federazione Comunista Anarchica Italiana”, aperta agli anarchici di tutte le tendenze. Rientra in Sicilia alla fine dell’anno, e subito si prodiga per la rinascita del movimento, partecipando al convegno anarchico di Palermo del 3-4 settembre 1944 e organizzandone un altro, dei gruppi “comunisti libertari” di Mazara, Trapani e Castellammare del Golfo, che si tiene a Mazara il 22 luglio 1945. Ma il tentativo da lui promosso di costituire una “Federazione Comunista Libertaria” della Sicilia, d’intonazione “frontista”, è presto destinato ad abortire per mancanza di aderenti. Dal successivo convegno di Trapani del 14 marzo 1946, nasce invece la Federazione Anarchica Trapanese “Carlo Cafiero”, a cui si deve un decisivo impulso per la fondazione a Palermo, il 2 marzo 1947, della Federazione Anarchica Siciliana. Il gruppo “Giordano Bruno” di Mazara, a cui aderiscono anche iscritti a vari partiti di sinistra, dopo un periodo di intensa attività, durante il quale Catalano promuove la costituzione di una biblioteca circolante, ripiega nella collaborazione col partito e con la camera del lavoro comunista, estinguendosi gradatamente. Catalano, che ha intanto ripreso il suo posto di impiegato del dazio, si ritira dalla vita attiva del movimento alla metà degli anni cinquanta, pur conservandosi “fedele all’ideale anarchico” fino agli ultimi giorni di vita. Si spegne a Mazara del Vallo il 12 dicembre 1980.
GIANNI DIECIDUE
Tratto da Sicilia Libertaria n. 326, marzo 2013, anno XXXVII, pag.5 http://www.sicilialibertaria.it/wp-content/uploads/sicilialibertaria326.pdf
L’anarchismo come poesia
Ricorrendo il quarto anniversario della morte di Gianni Diecidue, anarchico di Castelvetrano, pubblichiamo l’anticipazione di una biografia “non solo politica” scritta da Nicola Di Maio, già membro dell’”Antigruppo poetico siciliano”, che lo conobbe da vicino.
Mi pare che sia poco importante, ai fini della “conoscenza” autentica di Diecidue, il sapere che egli nacque a Castelvetrano il 16 marzo del 1922, che il padre Rosario, straordinaria figura di anarchico, ha fatto il barbiere e poi il bidello per mantenere la famiglia, che il nostro studiò lettere classiche, che fu arrestato dalla polizia fascista, che si laureò all’Università di Palermo nel 1945 “senza infamia e senza lode”, come amava precisare, e che, fatta la solita gavetta, insegnò per anni all’Istituto Magistrale di Castelvetrano ecc. Che ebbe due figlie, Fiammetta e Sandra, che fu marito di Isabella Garofalo, che era orgoglioso dei suoi nipoti, può interessare a qualcuno? Queste notizie, pure utili, a me pare che dicano ben poco. Esse infatti finiscono per delineare soltanto un curriculum mentre a me importa piuttosto andare oltre la superficie dei dati, oltre cioè le obbligate cronologie, per cercare di cogliere invece l’immagine che quell’oltre contiene. L’oltre, nel caso specifico, è rappresentato, secondo il mio punto di vista, dagli aspetti
peculiari della persona, peraltro straordinaria, e dai contenuti, questi sì, nient’affatto di superficie, di una ricerca e di un progetto culturale ed artistico.
L’anarchismo di Gianni Diecidue è non soltanto quello di un uomo di cultura ma anche, e soprattutto, di un poeta, cioè il portato di una sensibilità vigile e insieme “acuminata”, attraversata dalla complessità di mille inquietudini e perciò sempre in colluttazione con sé stessa e con i dati “terribili” della Storia – la guerra, per esempio, con il suo cumulo assurdo di sofferenza e distruzione, di privazioni e di fame, di barbarie e di orrori; o il potere quale che sia – politico, economico, clericale, ecc. – che talvolta assurdamente quella guerra decide o che si struttura con tutti i suoi meccanismi, ora espliciti ora subdoli, di prevaricazione e di sfruttamento; il Sud, il mondo contadino – “la razza muta” -, come luogo di una precarietà oggettiva secolare più sconvolgente che altrove e come “campo” costantemente tangibile di un disagio, di uno scompenso e di una verifica.
Il poeta
Ne Le ceneri della luna (1964), il libro che contiene tutti i successivi libri di poesia di Diecidue, vi è, intero, il suo anarchismo e, insieme, l’opzione nonviolenta, esplicita, puntuale, già a partire dal risvolto di copertina; né manca, esplosiva, drammatica, la rappresentazione del mondo contadino, cioè di un mondo fermo nella storia e sconfitto. Lorca, Prévert, Brecht, quali punte di alta poesia europea, sono le coordinate del libro che si inscrive totalmente dentro il post-ermetismo; né manca, attivissimo, un engagement di fondo che benissimo coesiste con l’emergenza di una poesia degli affetti.
Il periodo dell’Antigruppo, che prende l’avvio da questo libro, è l’esempio concreto di un progetto culturale “plurale” che nasce e si sviluppa dentro le coordinate appena accennate e che anzi le prolunga e le approfondisce; e io credo che non si possa parlare dell’Antigruppo senza fare riferimento proprio al contributo teorico e operativo che Diecidue diede al “movimento”. Per Gianni, ma anche per noi, è quella la stagione totale dell’impegno, ma anche dell’entusiasmo creativo, oserei dire della felicità creativa.
Nell’area trapanese dell’Antigruppo, Diecidue era la coscienza critica più avvertita di una poetica che, pur contigua a soluzioni di tipo post-ermetico e neorealistico, perfettamente conciliava “pubblico” e “privato” aprendosi anche a soluzioni “neosperimentali” in forza di una inquietudine linguistica già attiva, proprio, nelle Ceneri. Per lui aveva senso una collocazione della poesia e della cultura in un sistema relazionale antagonistico, secondo un prassi tutta giocata sul piano del lavoro a ciclostile e dei recitals in piazza. Il collante di questo sistema egli chiaramente lo individuava nell’antifascismo. Si trattava – e si tratta – di una risposta puntuale e di un contributo teorico importante che andava oltre le divisioni sulle questioni metodologiche e delle poetiche attinenti alla forma della comunicazione e che avevano, nel periodo 1974-75 – comportato l’emergenza, nell’Antigruppo, delle cosiddette due anime, quella cioè “populista” raccolta attorno a Certa, Diecidue, Scammacca (area trapanese) e quella palermitana “neosperimentale” (Apolloni, Terminelli, Di Maio). E inoltre la scelta dell’antifascismo come soluzione unificante della cultura era anche una implicita riproposizione e puntualizzazione di una nozione di “impegno” in cui confluivano però tutte le formulazioni dell’engagement – da Gramsci a Vittorini, da Quasimodo a Carlo Levi, da Scotellaro a Dolci ecc. Era, insomma, l’acquisizione senza riserve di una “linea rossa” della cultura novecentesca in cui sicuramente non c’era spazio per l’intellettuale “separato” e per una cultura aristocratica.
Il drammaturgo
Sul teatro di Diecidue dirò subito che esso, per fortuna, non è, né poteva essere, un teatro pedagogico, né un teatro di intrattenimento o, come si dice, di evasione. É piuttosto un teatro che obbliga a riflettere sulla condizione assurda e dell’uomo e, in generale, della società in cui l’uomo vive ed agisce. É dunque il teatro di un intellettuale critico e attento a capire i segni di questo assurdo che tutti respiriamo e con cui tutti abbiamo, volenti o nolenti, a che fare. E così Becket sarà la coordinata vera e cogente fin dal primo testo (Noi, l’umanità), una “beckettiana” che risale al 1963. I vagabondi di Aspettando Godot, Vladimiro ed Estragone, non li ha inghiottiti il nulla da cui provengono. Essi sono tra di noi, siamo noi, e Diecidue, a distanza di anni, ce li riconsegna sulla scena quali emblemi perenni della condizione di una umanità sofferente, condannata ad essere tale per la perdita di vista della grandezza dell’uomo. Il teatro di Diecidue è perciò lo “specchio“ attendibile di una violenza quotidiana che non risparmia nessuno: dal Caporale di Sua Maestà alla Margot de Il caporale (1964), ad Oreste e a sua sorella nell’Oreste (1965), all’Omino e allo Sconosciuto de Il cauto sentimento (1970), al Commendatore e ai due giovani imbelli di Adamo il serpente e le mosche (1971), a Maria e a Dena, due donne sole di Quando rientrò disse che era una bella festa (1971).
Tra i Triangoli (1973) e il Teatro minimo (1998), la seconda raccolta teatrale di Diecidue, non c’è soluzione di continuità. E però nei testi del Teatro minimo la violenza (della vita, della Storia), si coniuga con il gusto del paradosso, talvolta spinto all’eccesso, da cui scatta inevitabilmente il “comico”. Ed è il paradosso che muove, come un invisibile filo, i personaggi improbabili, spettatori e giudici del rapporto fisico tra uomo e donna in un’alcova trasformata in un ring, di un improbabile Congresso (1976), o i ladri di Anche i ladri muoiono di venerdì (1977), emblemi dello squallore di un potere che del furto ha fatto la sua regola di vita, o l’irresistibile Federico III detto il semplice (1978), sopraffatto dalla sua atroce decadenza che pure si ostina a mantenere, inutile ciarpame, gli inservibili emblemi del comando – il Servo, l’Armigero, ecc. Siamo dunque in presenza della messa in scena dello spaccato di una società fuori di sé, e di una deriva. Sul versante del teatro, per certe particolari tipicità, possono essere ricondotti i Racconti di Diecidue, alcuni dei quali sono veramente esemplari per quel tanto di autobiografico e di storia vissuta che vi si muove dentro. E penso, in particolare, all’irresistibile Codice d’amore dove tutto è scrupolosamente previsto tranne il fatto dell’assenza di lei al programmato tête-a-tête. In questi racconti, dove la scrittura narrativa è tutta cose, scontornata e scarnificata fino all’osso, l’unico vero personaggio però è lui, Gianni Diecidue: lo zanni geniale, l’anarchico affettuoso, mite e gentile, incapace di uccidere perfino una mosca, il poeta, delicato e irriverente, che noi tutti avremmo voluto essere.
Nicola Di Maio