L’immane tragedia familiare del Rione Palme non può che suscitare, oltre all’umana pietà per un evento luttuoso così traumatico, una necessaria riflessione.
Quello che è successo riguarda tutta la collettività trapanese, al di là dei motivi e delle dinamiche private che hanno determinato questa orribile violenza. La cronaca è purtroppo piena di drammi familiari e di cosiddette stragi della follia. La sensazione è che, davvero, qualcosa si sia rotto non solo nelle famiglie ma, più in generale, nel tessuto sociale di tutto il Paese.
Il male di vivere, o comunque lo si voglia chiamare, è qualcosa che riguarda sicuramente la sfera dell’individuo e della sua capacità/incapacità di gestire emotivamente il suo mondo interiore e le relazioni con gli altri. Omicidi efferati e stragi familiari possono certamente maturare in qualunque contesto, ma quando la vita si fa particolarmente dura, e davvero tutto sembra più difficile, il rischio che qualcosa si spezzi irreperabilmente diventa più alto.
La strage del Rione Palme è davvero emblematica. Chi uccide è un uomo. Le vittime sono la moglie, la figlia piccola, la suocera anziana, il cognato disabile. In un solo colpo ci si trova di fronte a una massiccia violenza di genere mischiata alla soppressione di persone oggettivamente deboli e indifese. Chi ha ucciso era disoccupato, prigioniero del gioco d’azzardo, incapace di elaborare e superare la separazione dalla moglie e dalla famiglia. Talmente incapace di ricucire gli strappi della sua vita al punto da distruggere tutto, cose e persone, per poi ammazzarsi.
Il contesto è quello di un quartiere popolare come altri ce ne sono in questa città e in tutto il mondo. Il contesto è quello in cui l’orizzonte esistenziale è soffocato dalla precarietà, dalla mancanza di prospettive, da un’alienazione quotidiana che stritola tutto e tutti. Sarebbe davvero miope additare questo o quel sindaco, questo o quel servizio sociale, per cercare nelle solite “istituzioni assenti” il confortante capro espiatorio sul quale scaricare un senso di colpa collettivo. Le istituzioni sono sempre assenti, per definizione. Esse si limitano a perpetuare lo stato di cose, a fornire – nel migliore dei casi – dei palliativi che a Trapani non ci sono nemmeno.
Il malessere sociale non appartiene solo al Rione Palme, e le sue cause sono strutturali. Quella in cui viviamo è una società del tutto simile a un tritacarne, dove le famiglie rappresentano gli incubatori di un disagio profondo, dove gli individui sono ridotti al rango di ingranaggi di una macchina micidiale. “Produci, consuma, crepa” si diceva un tempo. E oggi che non si riesce neanche più a produrre, e sempre più persone vengono progressivamente espulse dal mercato del lavoro, l’alienazione si fa sempre più intollerabile e si trasforma in desiderio di dominio, in incapacità di comunicare con se stessi e con gli altri, in esercizio disperato della violenza.
I fatti di via Omero rispondono brutalmente alle sterili polemiche dei giorni scorsi a proposito di classifiche sulla qualità della vita a Trapani o nella sua provincia. Di certo, non ci voleva tutto questo sangue e tutto questo dolore per capire come si vive nelle nostre periferie o quale sia il livello di divaricazione tra i pochi che stanno benissimo e i tanti che stanno sempre peggio.
E allora, se tutto questo può avere un senso, pensiamo che fatti di questo genere siano un indicatore allarmante che ci chiama a un’assunzione di responsabilità individuale ancorché collettiva. Bisognerebbe sforzarsi di riparare il tessuto connettivo di questa società ridotta ormai a una poltiglia anomica; si dovrebbe affrontare il degrado dei rapporti umani e sociali riattivando legami di solidarietà e di mutuo appoggio per far fronte al disagio economico ed esistenziale e non sprofondare nella solitudine, a casa come nel quartiere in cui viviamo.
Bisognerebbe ricostruire su queste macerie cambiando completamente punto di vista, rimettendo al centro delle relazioni umane la comprensione, la condivisione e il rispetto.
Se non si esce dall’ingranaggio, restiamo tutti schiacciati.
Gruppo Anarchico “Andrea Salsedo” – Trapani
13/01/2012
l abbandono sociale è un fatto che si ripete nel tempo capitalista da secoli. le lotte per i diritti per quanto giuste che siano state sino a questo momento sono state ricondotte ed hanno fruttato solo il riconoscimento di poter consumare sempre di piu. un aiuto una rivoluzione che voglia che possa esser sostenibile e duratura nel tempo non puo che prescindere da un piano di economia che possa sostenere la relazione umana la condivisione ed il rispetto. la storia lo insegna che ogni “civiltà”nasce prospera muore intorno ad un economia che si ,puo generare come oggi potere distruttivo (tanto per gli sfruttati ma a fine gioco anche per gli sfruttatori)ma puo puo generare se organizzata anarchicamente solidarietà condivisione libertà. per finire quindi se vogliamo aiutare ripristina re un senso umAno libero della vita dovremmo progettare un metodo economico da realizzare immediatamente con la lottA
Complimenti all’estensore dell’articolo che centra il cuore del problema: la sempre minore solidarietà umana, anche tra gli stessi “ultimi” del sistema.
Soltanto una rinnovata, nuova e vera solidarietà sociale potrebbe evitare simili tragedie, innescando quella rivalutazione dell’uomo che superasse i le differenze sociali, tipiche di un sistema economico basato sullo sfruttamento.