VALSUSA. FUMO E ARIA FRESCA.

Domenica 3 luglio, Val Susa. Un’altra pagina della nostra storia fatta delle mille storie individuali che si intrecciano e si moltiplicano.
Lo striscione dei bambini che apre il corteo, la banda che suona, gli striscioni, il popolo delle mille resistenze d’Italia che si mescola in un grande corteo. Così grande che le menzogne della Questura saranno più sfacciate del solito. Tanta gente con un unico grande obiettivo: stringere d’assedio il fortino costruito alla Maddalena dalle truppe di occupazione.
Chi ha spezzato le barricate della Libera Repubblica, chi ha voluto imporre con la forza militare il proprio dominio deve sapere che non potrà lavorare in pace, che verrà contrastato giorno dopo giorno dai No Tav, finché se ne andrà.
Il corteo si snoda per ore da Exilles lungo la statale e di lì in discesa in mezzo ai piloni dell’autostrada sino alla barriera di acciaio e filo spinato piazzata all’ingresso della salita verso la Maddalena, poco dopo la centrale idroelettrica. C’è anche lo spezzone rosso e nero dell’anarchismo sociale, dove in centinaia hanno risposto da tutt’Italia all’appello per la manifestazione, dividendosi tra il corteo e l’assedio dai tanti sentieri. Nei giorni precedenti in moltissime città avevano dato vita ad iniziative di solidarietà e sostegno alla lotta in Val Susa.
Quando il corteo arriva alla centrale molti No Tav si fermano nei boschi, mangiano e si preparano all’assedio, altri si dispongono lungo la strada che sale al paese di Chiomonte, altri ancora raggiungono il campo sportivo dove si conclude la parte di manifestazione cui hanno aderito anche sindaci ed amministratori.
Chi se la sentiva è sceso dai sentieri, gli altri hanno scelto la strada: ma la giornata è di tutti.
L’assedio va avanti per ore ed ore. I No Tav scendono dai sentieri e premono contro le reti. Scendono dalla Ramats, si affacciano da Giaglione, attraverso la via delle Gorge. Anche alla Centrale, una volta defluito il corteo dove tanti hanno scelto di portare i propri bambini, comincia la pressione contro le recinzioni.
In tanti hanno imparato la lezione impartita a suon di gas e manganellate durante l’attacco di polizia alla Libera Repubblica: chi si è comperato la maschera antigas, chi quelle semplici da ospedale, chi si limita ad un fazzoletto bagnato. Tutti hanno i limoni, le pastiglie di Malox da sciogliere, il ventolin. Caschi di tutte le fogge difendono il capo dei manifestanti: chi indossa quelli da cantiere, chi mette quelli da moto o da bici: gli alpinisti si distinguono per il materiale tecnico usato da chi arrampica. Nonostante le protezioni, al termine della giornata i feriti saranno tantissimi, impossibile contarli tutti, perché solo i più gravi vanno in
ospedale: gli altri vengono curati sul posto da medici e infermieri No Tav. Qualcuno va su con in faccia i segni dei colpi ricevuti la settimana precedente.
La baita dei resistenti, a margine del borgo Clarea, viene ripresa dal corteo partito da Giaglione e si trasforma in ospedale da campo.
I poliziotti diranno di aver avuto 200 feriti: una dottora del CTO, intervistata dal TG3 dichiarerà che tanti sono scivolati o sono vittima di malori da caldo e stress. Si fa davvero fatica a provare compassione per questi servi sciocchi e crudeli, ma chi ci riesce dimostra la diversa qualità morale che oppone i resistenti ai lanzichenecchi del governo.
L’assedio va avanti per ore ed ore: dalla mattina sino a sera. Chi si affaccia alle reti viene accolto da un fitto lancio di lacrimogeni CS, un’arma da guerra, che altrove è stata bandita dalle manifestazioni. I colpi spesso sono diretti sulle persone con effetti devastanti. I feriti
più gravi sono centrati da lacrimogeni sparati a distanza ravvicinata. Come se non bastasse poliziotti e carabinieri lanciano sassi: li tirano da dietro la recinzione, li scagliano dall’autostrada sui manifestanti che stanno sotto. Chi può si difende e tira a sua volta sassi. La lotta è impari, ma i resistenti non mollano. Sui fronti di Ramats, Giaglione e della Centrale i No Tav continuano per oltre sei ore il loro assedio. In un paio di punti la recinzione cede alla pressione. La polizia continua a gasare: i manifestanti arretrano ma poi tornano ad avanzare. La forza delle proprie ragioni è più tenace della ragioni della forza bruta.
Chi cade in mano alle truppe dello Stato viene offeso e torturato. Un ragazzo, con un braccio spezzato mentre cercava di difendere il capo dalle manganellate di una decina di energumeni che lo pestavano a terra, racconta di una giornata di umiliazioni e paura. Disteso su una barella continua ad essere colpito da calci e pugni: un colpo di spranga gli spezza il naso, è innaffiato da un bicchiere di orina. Ben tre ambulanze vengono mandate indietro: resta senza cure in una barella al sole per oltre tre ore.
Un carabiniere, anche lui scivolato e caduto in terra, viene abbandonato dai propri camerati: saranno i No Tav a riportarlo tra i suoi. Quattro manifestanti vengono arrestati e condotti nel carcere di Torino.
Maroni, i cui uomini hanno ferito, torturato ed offeso pretende che i resistenti siano accusati di tentato omicidio.
Durante le lunghe ore dell’assedio la gente che per età o per salute non ce la fa ad essere in mezzo ai boschi non si allontana, e sostiene con passione chi è in prima fila nell’assedio. Alla Baita i feriti sono accolti da applausi e urla di sostegno; dai curvoni che salgono a Chiomonte la gente grida forte quando arriva la notizia che una rete è saltata. Alcuni tentano anche una sortita dal fiume per dare man forte a chi resiste più in alto.

Il giorno successivo i giornali racconteranno un’altra storia, ripetendo un copione già scritto e usurato da anni: la litania della gente pacifica e dei cattivi Black Bloc, l’opposizione tra i tranquilli valligiani e i professionisti venuti da fuori. Politici e politicanti per un momento si illuderanno di poter finalmente spezzare il movimento, dividendo tra buoni e cattivi, tra pacifici e violenti. Ma si sbaglieranno.

Una comunità resistente, una comunità che si è reinventata tale sfuggendo alle trappole dei media, imparando a capire da se come stanno le cose, una comunità che tante volte ha assaggiato sulla propria pelle la violenza dello Stato, non si fa abbindolare tanto facilmente.
La gente dei boschi e quella della strada è la stessa gente, le stesse facce, la stessa storia fatta delle mille storie di ciascuno di noi.
Nella conferenza stampa indetta il giorno dopo a Chiomonte verrà detto forte e chiaro: nei boschi e sulle strade non c’erano Black Bloc, c’era una comunità resistente, che si è difesa dagli attacchi riuscendo a riprendersi la Baita e buttando giù, qua e là, la rete.

Sono passati dieci anni da Genova. Il sole estivo a tanti ricorda quell’altro luglio, quando il movimento contro la globalizzazione perse la sua grande occasione. Era il momento giusto per tessere a trama fitta fitta una rete solidale tra chi lotta per un mondo dove lucro, sfruttamento, disuguaglianza, comando scompaiano, divengano parole cancellate dal lessico comune, relegate tra i residui di un passato da dimenticare.
Un obiettivo importante che non si seppe centrare, perché chi si candidava al governo dell’opposizione, chi voleva far leva sui movimenti per costruire le proprie carriere politiche, chi parlava di municipalismo ma finiva con il candidare i propri uomini nelle liste di centro sinistra, non poteva permettere troppa autonomia ai movimenti.
Fecero male i propri conti, perché il vento stava cambiando in peggio: qualcuno raccattò una poltrona, altri restarono a mani vuote. D’altra parte i militanti più radicali nella pratica non seppero aprire interlocuzioni sui contenuti, oltre che sulla prassi. E la prassi, scissa
da una forte progettualità autogestionaria, non indica altro che se stessa. E in se stessa si esaurisce.
La criminalizzazione in questo contesto divenne sin troppo facile. I media inventarono favole cattive per tenere buoni ed obbedienti i bambini e troppi adulti pensarono che fossero vere. I buoni e i cattivi, chi era dentro e chi era fuori. La barriera di carta e menzogne di quel luglio divenne ben così alta e robusta che ancora oggi soffoca.
Le botte, i gas, le torture, gli insulti, gli inermi massacrati per le vie di Genova e nelle caserme degli uomini dello Stato quasi passavano in secondo piano. I cattivi in nero divennero l’alibi che quasi giustificò la violenza di polizia e carabinieri, la feroce repressione compiuta dal governo Berlusconi ma preparata dal governo D’Alema.
Ma Genova, dopo dieci anni non possiamo non riconoscerlo, era soprattutto un enorme palcoscenico. I potenti della terra riuniti in una città ridotta ad avamposto di frontiera tra uomini in armi e, intorno la folla eterogenea, molteplice venuta a rovinarne la festa, a mettere in luce la trama feroce di chi governa un mondo attraversato da ingiustizie intollerabili.
Poi venne l’11 settembre, la guerra permanente contro il terrorismo, e quel movimento piano piano si esaurì. L’opposizione alla guerra non seppe mai farsi movimento vero, capace di mettere in difficoltà chi bombardava in nome della democrazia. Quella guerra non è mai finita. Ed è anche nostra responsabilità non averla saputa fermare.

In questo luglio, tra i piloni dell’autostrada e i sentieri ripidi della montagna, dove la valle si stringe e dirupi si fanno scoscesi, abbiamo scritto un’altra storia.
Non per caso.
Vent’anni di lotta, di autogestione, di continuo interrogarsi sul come e il perché hanno dato i loro frutti. Un movimento che rifugge la violenza, perché la violenza è quella feroce degli Stati, degli eserciti, delle guerre, sa che quando si viene attaccati e invasi occorre difendersi.
L’etica della convinzione e quella della responsabilità si coniugano e raggiungono un felice equilibrio quando si radicano nella prassi quotidiana di un movimento fatto di tante anime e tante diverse sensibilità.
Le reti devono andare giù, la terra deve essere difesa. È una questione di dignità. Niente di tutto questo è legale, ma contro chi fa guerra, chi sfrutta, chi tortura, chi invade e ferisce, ribellarsi è sempre giusto.
Genova è lontana, lontanissima. Anche allora c’era chi scelse di fuggire lo spettacolo, mirando a coniugare radicalità e radicamento. Una scelta che oggi a dieci anni di distanza mostra tutta la propria forza.
Ci hanno intossicati di gas, ci hanno chiamati criminali, hanno riempito di fumo il chiarore del nostro luglio. Ma non è bastato a cancellare l’aria fresca di questo movimento.
L’assedio continua. Ogni giorno.

Maria Matteo

(Foto tratte da: http://facebook.com/leonardozanchi)

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